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Numero 3 Giuseppe Mazzotta

Il vagabondo delle stelle

Il romanzo di Jack London, un “viaggio” tra carcere e carcerati nel quale la fantasia si mescola al contorno della verità estrema: il libro riporta la cronaca degli ultimi tre giorni di vita del detenuto Standing

Visionario, sognatore, rivoluzionario e chissà quante cose altre ancora. Jack London, lo scrittore statunitense noto per “Martin Eden”, “Zanna Bianca”, “Il richiamo della foresta”, era tutto questo ma era soprattutto un uomo libero, perciò tormentato dalla sua ipersensibilità che gli mostrava gli angoli dietro cui nessun occhio si addentra e gli aspetti della vita più sofisticati ed estremi.
Segnalo il “Vagabondo delle stelle” perché è uno dei suoi romanzi dove la fantasia si mescola al contorno della verità estrema e dove la verità, cui tutti aneliamo, corre sullo stesso binario della ferocia insita nell’animo umano, capace di grandi gesti, nel bene e anche nel male che, non dimentichiamolo, è una delle componenti della natura umana.
Questo romanzo narra di carcere e carcerati: una metafora, a chi per lodevole pignoleria voglia leggere fra le righe, da costrizioni interiori spesso involontariamente erette dalle opinioni e dai giudizi altrui nei nostri confronti, fu senza dubbio ispirato alla conoscenza reale dello scrittore con alcuni detenuti.
La trama racconta la vicenda di Darrel Standing, un professore universitario recluso a San Quintino con l’accusa di aver ucciso un collega, il professor Hasket e che in seguito, per estremo paradosso, subirà una seconda punizione, questa volta a morte per un’aggressione.
Il libro riporta la cronaca degli ultimi tre giorni di vita del detenuto Standing: un incorreggibile, secondo la valutazione di Atherton il direttore del penitenziario, perciò temuto e rispettato da tutta la popolazione carceraria che verrà richiuso in una cella di isolamento per una vicenda di esplosivo, in realtà mai esistito, occultato nel carcere. Nella cella di isolamento farà amicizia con due altri detenuti ed Morrell e Jake Opnheimer con i quali comunicherà battendo le nocche sul muro.
Vittima di soprusi, angherie e vere e proprie torture per fargli confessare ciò che in realtà non conosce.
Il punto più affascinante del romanzo, sapientemente scritto come del resto tutto ciò che scriveva London, è rappresentato dai viaggi (o piccola morte) fuori dal corpo (ad insegnagli la tecnica sarà il compagno di pena Morrell) che Hasket intraprenderà nei momenti in cui sarà costretto a trascorrere molte ore del suo tempo, immobile, legato ad una camicia di forza; trovandosi così in luoghi e tempi sconosciuti ma tutti facenti parte di un lungo ciclo di reincarnazioni.
Non svelerò la fine (ma non so se in questo caso il termine fine sia quello più appropriato), mi limiterò ad alcune brevi considerazioni: la prima riguarda proprio le cosiddette esperienze extracorporee, la cui interpretazione rimane incerta, di cui molte persone raccontano e sulle quali la scienza ha finora storto il naso non ritenendole attendibili. La seconda invece riguarda l’uomo in sé. La sua capacità di adattamento al fine di superare le situazioni più estreme e controverse facendo ricorso non solo alla cosiddetta forza di spirito ma anche a capacità intrinseche che sorgono nei momenti più estremi. E la fantasia e la forza della mente, oltre le altre probabilmente innumerevoli doti di cui l’animo umano è dotato, rappresentano l’anello che lega indissolubilmente la carne allo spirito e a tutto ciò che invisibilmente ci circonda, come l’aria che respiriamo. Un romanzo, questo ultimo di London, per riflettere una volta di più su tutto questo.

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