Cultura

Ergane Cultura
Numero 1 Valentino Leuzzi

Traiettorie del pensiero

Alla scoperta delle regioni alla base della scelta editoriale della Casa Editrice Città Futura nel lancio del terzo volume dell’antologia di dieci racconti Salento quante storie, selezionati attraverso l’omonimo concorso.

Il melograno, un'immagine simbolica

Memore di un importante insegnamento del Maestro e mentore Achille de Nitto (1), e seguendo la falsa riga di percorsi già ampiamente tracciati ne Il filo del pensiero (2) da Francesca Rigotti, ho pensato sovente che le introduzioni dei libri costituiscano le parti decisive, un segnale preciso su tutto il resto, il luogo nel quale l’autore può mostrarsi allo scoperto, o rinunciare a farlo.
Si intuisce da subito che il problema del narratore è riuscire, in ogni caso, a rapidamente definirsi, e a segnalare cose reputate importanti, allo scopo di orientare, con la possibile concretezza, su quello che si è fatto, nonché sulle proprie ragioni. Saper mantenere una misura, dimensionarsi, o ridimensionarsi, rispetto al proprio stesso tema. Si tratta, in conclusione, di suggerire connessioni, relazioni, indicare sentieri del fare letteratura: senza necessariamente riempire dei vuoti, come si volesse accompagnare per mano, ma piuttosto lasciando intuire traiettorie del pensiero, lavorando su possibilità, alcune delle quali soltanto sono state esplorate.
D’altra parte, in alcuni casi, come sono persuaso sia il nostro, anche alcune scelte editoriali possono porsi in maniera sintomatica quale espressione di qualcosa di più ampio e indicativo del lavoro che si è coltivato e di quanto possa essersi, eventualmente, sedimentato infine in virtù di esso.
Insomma, per ricorrere, forse con un po’ di enfasi, ad una famosa espressione di Vargas Llosa, definisco tale processo creativo e/o di indagine col termine di “dati nascosti ellittici” (3) da rintracciarsi all’interno di un sentiero testuale sinergico di pensiero parole immagini.
Ecco, forse, rinvenuto il motivo per il quale ho guardato con interesse e curiosità spontanea alla scelta editoriale della Casa Editrice Città Futura che, nel lancio del terzo volume dell’antologia di dieci racconti Salento quante storie, selezionati attraverso l’omonimo concorso, pone in bella vista l’immagine del frutto di un melograno, la nota melagrana o granata, pianta presente da epoca preistorica nell’area costiera del Mediterraneo, diffusa dai Fenici, dai Greci e, in seguito, dagli Arabi.

Copertina Salento quante Storie III Edizione

Perché il melograno?

Nell’immaginario collettivo di una risalente e inveterata tradizione ebraico-cristiana, e giocoforza anche propria della simbologia cabalistica, nonché della mitologia greca, il melograno sta a indicare, metafisicamente anzitutto, la vita e la morte, la verità e l’inganno, l’amore e l’odio. Dico questo, ovviamente, nel tentativo di far emergere una connessione tra gli opposti (e i contrari) ontologici per eccellenza: essere e non essere. Opposti (e contrari) ma non antagonisti quindi, in quanto coesistenti in egual misura nell’esperienza umana. In questo senso, il melograno è, in primo luogo, il significante di un messaggio inteso quale nobilitazione della vita proprio perché esiste la possibilità, e insieme, la certezza della morte, l’esistenza della non esistenza, e, dunque, il sacrificio, lo scotto da corrispondere.
In estrema sintesi, due tra le molte leggende tramandate mi sembrano calzanti.
È raffigurata spesso con il frutto del melograno tra le mani, Persefone. La leggenda vuole che, mentre giocava a raccogliere fiori, la terra le si aprì sotto i piedi e, in questo modo, rapita da Ade, fu portata nell’Oltretomba.
Demetra, adirata, fece in modo che i frutti sulla terra non maturassero e calò così l’inverno perpetuo. Zeus, preoccupato, inviò il suo messaggero da Ade per chiedergli di liberare la bella Dea. Ade ubbidì, ma nel momento di liberare Persefone le offrì il seme del melograno. Lei mangiandolo accettò inconsapevolmente di passare sei mesi con la madre sulla terra e sei mesi con Ade, come sua sposa, negli inferi.
In questa leggenda il frutto diventa il legame tra regno dei vivi e regno dei morti, ed è proprio il suo chicco a far sì che la bella Persefone ritorni. Ogni anno, Persefone, così come la natura, sperimenta la morte. Sempre seguita dalla resurrezione.
Nella tradizione evangelica o messianica, anche il Cristo è stato raffigurato, similmente, con un chicco di melagrana tra le dita, ancora infante tra le braccia della Madre che lo mostra all’osservatore, così come in alcune opere del Botticelli, proprio ad indicare un messaggio o una promessa di ciò che sarà compiuto coerentemente alle Scritture, ovvero il sommo sacrificio del figlio di Dio e il suo ritorno dalla morte.
Non mi sembra un caso, del resto, che il melograno raggiunga una grande carica simbolica nel libro biblico che canta la splendore dell'amore: il Cantico dei Cantici, dove è simbolo dell'amore fecondo e dell'intensa relazione tra l'amato e l'amata. La bellezza dell'amata, colma di vitalità, è con queste parole descritta: «come spicchio di melagrana è la tua tempia dietro il tuo velo» (Ct. 4,3; 6,7). Persino nel giardino, luogo dell'amore, fioriscono i melograni. Lo sposo che cerca la sposa va a vedere se nel giardino sono sorti i germogli (Ct. 6,11). L'amato scorge nel melograno, il cui frutto ricco di semi e di colore rosso, simbolo del fascino dell'amore, che la sua amata è sposa feconda, piena di vita, portatrice di felicità.
Non mi sembra un azzardo, né una divagazione inessenziale, avanzare l’ipotesi che, nel giardino dell’Eden, accanto all’Albero della conoscenza del bene e del male dov’era posto l’Albero della Vita, quest’ultimo fosse proprio un melograno. Sì, proprio nel giardino dell’Eden, luogo dal quale l’uomo è stato strappato e al quale vuole fare ritorno.
A questo punto dovrebbe sembrare ormai chiaro che nel significato più profondo del melograno è celata quella che definisco l’«etimologia della promessa del ritorno».
È solo il ritorno che giustifica il sacrificio.
È solo il ritorno che realizza la promessa.
È solo il ritorno che lega con pienezza di senso l’essere e il non essere.
Come magistralmente nota in uno dei suoi scritti più appassionati Milan Kundera (4), in greco “ritorno” si dice “nostos”, “algos” significa invece “sofferenza”. La nostalgia è, quindi, la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare. Ulisse, il più grande avventuriero di tutti i tempi, è anche il più grande nostalgico. L’Odissea è l’epopea fondatrice della nostalgia, quindi. Nel quinto canto dell’Odissea, Ulisse dice alla dea Calipso: «So anch’io, e molto bene, che a tuo confronto la saggia Penelope, per aspetto e grandezza, non val niente a vederla… Ma anche così desidero e invoco ogni giorno di tornarmene a casa, vedere il ritorno».
Nelle due leggende delle quali ho riferito, così come nell’insegnamento dell’Evangelo, gli eroi fanno ritorno. Il ritorno è l’adempimento della promessa. Soltanto i mentitori, coloro i quali non amano o non hanno mai amato, non fanno ritorno, non mantengono la promessa. Il melograno rimanda, in definitiva, ad un tessuto di narrazioni e concetti fondanti la nostra civiltà antica ed esprime un messaggio di vita, di dolore e di speranza insieme.
Come Ulisse, siamo nati in una terra dove si impara presto a scrutare l’orizzonte misterioso del mare, capace di un invito infaticabile e muto, potrei allora concludere forse con parole non mie: «L’illusione non si mangia», disse la donna. «Non si mangia, ma alimenta», ribatté il colonnello. (5)

Note

(1) Achille de Nitto, Diritto dei giudici e diritto dei legislatori, Argo, 2002
(2) Francesca Rigotti, Il filo del pensiero. Tessere, scrivere, pensare, Il Mulino, 2002.
(3) Dario Puccini, Introduzione a Nessuno scrive al Colonnello di Gabriel Garcia Marquez, Mondadori, 1982.
(4) Milan Kundera, L’ignoranza, Adelphi, 2000
(5) Gabriel Garzia Marquez, Nessuno scrive al Colonnello, Mondadori, 1961.


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